Prosegue il consolidamento del rimbalzo di inizio anno, che a breve potrebbe permettere l’archiviazione del trimestre nero
Banche centrali
Nelle ultime settimane si va alimentando la speranza che la Bce, dopo aver messo un punto al Quantitative easing lo scorso 31 dicembre, stia seriamente considerando la possibilità di riaprire il rubinetto della liquidità verso il sistema bancario attraverso un Tltro. Probabilmente il mercato sta già scontando che, in occasione della prossima riunione in calendario il 7 marzo, la banca centrale annuncerà il varo di una nuova misura avente come obiettivo alleviare i problemi di raccolta delle banche europee e sostenere i prestiti a famiglie e imprese. Come detto, il mercato sta già inglobando gli effetti di tale misura tornando ad acquistare titoli di stato, soprattutto a breve termine, da utilizzare come garanzia dei prestiti. D’altronde nell’Eurozona, e non solo, la crescita si sta indebolendo, l’inflazione è ancora zoppicante mentre la volatilità dei mercati è esplosa. C’è chi fa notare che, in uno scenario simile, non procedendo con una nuova iniezione di liquidità si configurerebbe di fatto una stretta nella politica monetaria, considerando che alcune banche potrebbero avere problemi a reperire denaro dal mercato per pagare i precedenti Tltro in scadenza.
La realizzazione di questo piano dovrebbe – almeno in teoria – spingere le banche a sovvenzionare società non finanziarie e famiglie. Tuttavia non mancano le critiche, che fanno notare come la liquidità, nonostante la fine del QE, non scarseggi di certo, ma che difficilmente si trasmette all’economia reale a causa della bassa fiducia verso un concreto sviluppo futuro. Il motivo per cui i mercati nutrono speranza sulla misura non riguarda quindi tanto la capacità di rilanciare realmente occupazione e consumi (che in ogni caso non sono gli obiettivi formali della Bce) ma di tutelare il sistema bancario ancora incapace di reggersi sulle proprie gambe e soprattutto di confermare la volontà della Banca centrale nel difendere l’euro.
Nella sua prima riunione del 2019, svoltasi a fine gennaio, la Fed si è presa del tempo per analizzare la situazione per poi agire di conseguenza: ciò che è certo, è che la Banca centrale intende adottare un approccio paziente, ed ha quindi lasciato invariati i tassi al 2.25-2.5%, intervallo raggiunto a dicembre in occasione del quarto rialzo del 2018; nella stessa circostanza, la Fed aveva proposto due rialzi dei tassi per il 2019, ma ora è tutto in discussione, poiché sarà necessario osservare i prossimi sviluppi dell’inflazione e dell’occupazione.
Dati macro
L’analisi dei dati macro denuncia qualche contrasto nello stato di salute dell’economia reale. In Germania l’indice Zew e la disoccupazione migliorano oltre le attese, mentre l’indice IFO delude. Negli Usa si evidenzia un generale peggioramento che coinvolge la disoccupazione – che comunque non supera un invidiabile 4% –, il settore immobiliare e l’indice di Philadelphia. Inferiore alle attese il Pil giapponese, comunque positivo, mentre sono dolori per il Caixin cinese.
Mercati azionari
I mercati dei capitali sono contraddistinti da un generale energico rimbalzo in atto da Natale. Il trimestre nero non ha avuto ripercussioni ugualmente gravi su tutti i listini, così come il recupero in atto non li sta triando con lo stesso impeto, ma un portafoglio ben diversificato sta certamente tirando un respiro di sollievo dopo mesi difficili per ogni tipo di asset ed area geografica.
In Europa il panorama è piuttosto eterogeneo. L’Euro Stoxx 50, in trend negativo da oltre un anno, nelle ultime sedute sta testando la resistenza dinamica. L’eventuale riconquista dei 3300 punti muterebbe considerevolmente le prospettive dell’equity del Vecchio Continente. Analoga situazione per il Dax e l’Ibex 35, per i quali potremo avere un responso nell’arco di poche sedute. Milano e Oslo sono le state le prime Piazze ad aver invalidato la trend line decrescente, mentre Parigi e Atene per ora sono ancora distanti dal test: i livelli chiave sono rispettivamente a 5420 e 720 punti.
Anche negli Usa è tempo di test: S&P 500 e Nasdaq stanno infatti sperimentando la violazione di resistenze statiche, a dire la verità non particolarmente robuste. Oltre, non sussistono livelli resistenziali degni di nota fino a massimi assoluti.
In Cina un piacevolissimo doppio minimo realizzato i primi dell’anno in corrispondenza della trend line strutturale crescente ha dato il via ad un recupero rapido ed importante, capace di invalidare definitivamente il down trend che dominava da circa un anno ed aprendo ora la strada a nuove e migliori opportunità. L’aumento dei volumi dell’ultimo semestre ha accompagnato il rally del Bovespa verso i massimi assoluti di inizio febbraio, nella cui area si è riportato nelle ultime giornate.
Il Sol Levante offre buone occasioni, ma non scevre di insidie. Il Nikkei 225 ha sì invalidato la trendline negativa, ma la strada verso il recupero dei massimi di fine settembre è ostacolata da un’area resistenziale di notevole rilevanza, compresa tra i 22000 e i 23000 punti.
Mercati obbligazionari
Il freno posto dalle Banche centrali al processo di normalizzazione sta sostenendo i titoli di Stato, i cui rendimenti sono precipitati a partire da ottobre, contestualmente al crollo azionario. Considerata l’inflazione, pur in rallentamento, i rendimenti reali sono tornati negativi o comunque trascurabili. Nell’ultimo trimestre il Bund si è apprezzato di oltre il 5%: oggi acquistando un decennale tedesco si rimette oltre l’1% reale annuo, il che rende l’investimento appetibile principalmente per gli investitori non europei, che confidano in un apprezzamento della moneta unica entro la scadenza.
Oro
Oltre che per i titoli azionari, l’anno è iniziato bene anche per l’oro. Per il metallo prezioso l’uptrend è valido dallo scorso agosto, ed ha permesso un avanzamento di circa il 12% in modo piuttosto stabile e regolare. Nonostante la corsa all’equity delle ultime settimane, non si è quindi verificato il raffreddamento dell’oro, come ci si attenderebbe, e che sarebbe ulteriormente giustificato dall’indebolimento dell’inflazione. La domanda pare infatti sostenuta dalle Banche Centrali mondiali (ancora loro!) che nel 2018 hanno effettuato acquisti di oro per circa 650 tonnellate, mai così tante dalla fine di Bretton Woods.
Negli ultimi cinque anni le Banche centrali più attive sul mercato della commodity sono state la Banca di Russia e Banca Popolare Cinese, che hanno pesato per circa il 9% della domanda totale. Entrambe le nazioni puntano ad arricchire le proprie riserve auree per rafforzare la credibilità delle loro valute, anche se per ragioni sensibilmente diverse. Mosca ha infatti iniziato lo shopping nel 2014 contestualmente al crollo del prezzo del petrolio ed alla conseguente necessità di “sganciare” il rublo dal dollaro per farlo svalutare. Anche la Cina intende rendere lo Yuan una valuta più rilevante sul piano internazionale, per fare in qualche modo concorrenza al dollaro negli scambi commerciali e nelle emissioni obbligazionarie, almeno in Asia. La strada è tutta in salita, in quanto il controvalore dell’oro detenuto rimane ancora esiguo rispetto alle riserve valutarie. È logico quindi attendersi il proseguimento degli acquisti ad intervalli regolari per i prossimi anni, con conseguente sostegno alla domanda.
Il rallentamento del processo di normalizzazione delle politiche monetarie da parte della Fed, e probabilmente anche della Bce, fornisce un ulteriore sostegno alle quotazioni dell’oro, poiché questo continua a non subire un’eccessiva concorrenza da parte dei titoli di Stato che offrono rendimenti ancora contenuti.
Il progressivo rafforzamento del dollaro – ormai ai massimi dalla metà del 2017 – potrebbe essere arivato al capolinea rappresendo un potenziale fattore di indebolimento per gli investitori diversi da quelli Usa. Il trend del biglietto verde – per ora – pare infatti frenato dalla resistenza a 0.88 euro.
Brexit e tensioni commerciali
Il ritracciamento del trimestre nero è stato decisamente profondo, forse eccessivo, ma efficace nel richiamare l’attenzione delle Banche centrali, pronte ora a cullare i mercati in un rinnovato torpore di liquidità. All’orizzonte si profilano però due principali elementi che potrebbero disturbare il recupero in atto, cioè le tensioni commerciali tra gli Usa e la Cina, probabilmente in via di risoluzione (la deadline è il 1° marzo) e che potrebbero quindi lasciare lo spazio ad un nuovo scontro, questa volta con l’Europa, e la Brexit. Mentre prende sempre più corpo l’ipotesi di un’uscita senza accordo, si minaccia addirittura un rinvio, pur di convincere ad accettare l’accordo ottenuto dalla premier. Non solo, l’idea di un nuovo referendum appare oggi meno astrusa che in passato. In ogni caso, l’Europa rimarrà al centro dell’attenzione ancora per diversi mesi, ed un attento monitoraggio delle due questioni è condizione necessaria per rimanere investiti nell’area, sia lato equity che bond. Gli Usa continuano a fornire buone occasioni di performance, pur necessitando di una buona copertura. In Cina si è configurata una buona opportunità di ingresso, ma il problema commerciale non è archiviato, ma solo sospeso nell’attesa di vedere se il Paese asiatico manterrà gli accordi.
Monica F. Zerbinati