Per quanto riguarda il mercato italiano, le pmi rappresentano un plus perché, in congiunture particolarmente negative, tendono a cedere quanto, o meno, delle large cap. C’è poi anche un tema di vantaggio fiscale di cui godono buona parte degli strumenti della categoria
A ormai due anni dall’esplosione su scala mondiale, è ormai sempre più probabile che il covid venga considerato una malattia endemica, invece che pandemica. Il termine non si riferisce alla gravità della patologia, ma alla sua frequenza: la circolazione stabile di un microrganismo in una popolazione determina una frequenza di casi più o meno costante nel tempo. Qualcosa con cui abituarci a convivere e gestire.
I mercati lo hanno già capito da tempo. Il mondo della finanza non è certo risultato immune agli effetti del contagio, in particolare allo stop alla produzione determinato dai vari lockdown, alle nuove abitudini e consumi, alla rotazione settoriale, ma buona parte degli asset azionari, dopo poche settimane di crollo verticale capace di bruciare in media il 40% del valore (in ogni caso meno di quanto perso durante la crisi del 2008) hanno avviato un recupero lento e costante. Un recupero che oggi sta subendo un nuovo stop per ovvie ragioni (tra cui la principale, la guerra in Ucraina)
Come si sono mossi gli attivi italiani durante questi due anni?
Gli indici Fida, costruiti su categorie omogenee di prodotti del risparmio gestito e quindi capaci di cogliere i rendimenti realmente ottenibili dai risparmiatori al netto dei costi, sono particolarmente utili per ricostruire le vicende, anche alla luce di quanto avvenuto oltre confine.
Le categorie significative in tal senso sono gli Azionari Italia Large e Mid Cap, gli Azionari Italia Large e Mid Cap value e gli Azionari Italia Mid e Small Cap, da confrontare con le categorie sui Paesi sviluppati europei, large e mid e mid e small cap.
Da un confronto grafico, realizzato a partire dal 19 febbraio 2020 (massimo antecedente al crollo imputabile alla pandemia), emerge una fortissima correlazione tra le categorie. Il crollo, durato circa un mese e terminato con un rimbalzo attorno al 20 marzo 2020, ha determinato gravi ritracciamenti, che hanno in un certo senso aperto una forbice tra le aziende italiane a elevata capitalizzazione di Borsa e quelle di ridotta dimensione.
Se è infatti vero che le large e mid cap value italiane hanno ceduto il 39%, il dato più grave tra gli indici considerati, sono le sorelle di piccola dimensione del Bel Paese a contenere maggiormente le perdite (-35%). All’interno di questo range troviamo le società europee, tra le quali sono proprio le small cap a essere maggiormente deboli. Le piccole eccellenze italiane hanno quindi raccolto maggiormente le scommesse degli investitori in un periodo in cui, come ben sappiamo, l’Italia ha dovuto affrontare un’emergenza, facendo da pioniere tra le potenze del vecchio continente.
Il vantaggio competitivo delle small cap italiane si è rivelato particolarmente utile per ottenere anche un ulteriore primato: dallo scoppio della crisi risultano ora in attivo del 6,45%, mentre quelle europee, nonostante il brillante rally, sono ferme a +4,91% (dati aggiornati al 7 marzo). Non solo: le piccole imprese italiane si posizionano al meglio anche per le performance di medio-lungo termine e per i livelli di volatilità relativamente contenuti.
Il focus sull’anno corrente ci obbliga a osservare le dinamiche di mercato degli attivi italiani ed europei nuovamente alla luce di fattori esogeni rispetto alla dimensione puramente economico-finanziaria della realtà. Il nostro, infatti, non è certo l’unico Paese europeo gravemente dipendente dalle risorse dell’Est e il clima di crescente incertezza sta penalizzando prevalentemente le piccole imprese europee (-18% ytd), mentre i colossi risultano più conservativi (-11%). L’Italia viaggia compatta, con le società di ogni dimensione che cedono in media il 14%.
Nel complesso possiamo quindi affermare che tra i prodotti del risparmio gestito, per quanto riguarda il mercato italiano il focus sulle piccole imprese rappresenta un plus poiché, in congiunture particolarmente negative, tendono a cedere quanto, o meno, delle large cap. A questo si aggiunge il vantaggio fiscale di cui godono buona parte degli strumenti della categoria.
Monica F. Zerbinati
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