Mercati tonici ma con sostanziali differenze tra Vecchio e Nuovo continente. Occhi puntati su Fed e oro.
Banche centrali
I dati macro in contrazione e l’altalena di febbraio-marzo sui mercati hanno fornito alla Bce la scusa per continuare con il mantra di Draghi: prudenza, persistenza e pazienza. Nulla di drammatico: il governatore ritiene che anche il 2018 si chiuderà con un risultato positivo, grazie al supporto dei consumi e del mercato del lavoro, ma non con la stessa imponenza dello scorso anno, complici le politiche protezionistiche. È stato quindi confermato il piano di acquisto per 30 miliardi di euro al mese almeno fino alla fine di settembre, e pare che non ci sia spazio per eventuali rettifiche fino al meeting di giugno.
Oggi, mercoledì 2 maggio, gli occhi sono puntanti sulla Federal Reserve: la banca centrale Usa potrebbe decidere un rialzo dei tassi. D’altronde con il pieno impiego e il forte stimolo fiscale fornito dalla riforma di Trump è probabile che i salari continuino a crescere, e ciò potrebbe produrre spinte inflazionistiche oltre il 2% annuo, obiettivo di lungo periodo della Fed. Il nodo non è semplice da districare, anche perché per la prima volta nella storia la banca centrale sta aumentando il costo del denaro riducendone contemporaneamente l’offerta, con le conseguenti difficoltà nel calcolare accuratamente gli effetti combinati dei due fattori.
Dazi
Aria tesa tra Stati Uniti ed Europa sull’argomento più discusso degli ultimi mesi: i dazi. Il primo maggio risultava essere il termine per decidere se estendere anche ai Paesi dell’EU l’imposizione doganale su acciaio ed alluminio, ma a sorpresa Donald Trump ha deciso di concedere all’Unione altri trenta giorni per trattare, posticipando così al primo giugno il termine ultimo. Ovviamente la notizia non coincide con quanto sperato dai leader del Vecchio Continente, che avrebbero preferito un’esenzione permanente dai dazi, ed ora auspicano per una contrattazione equilibrata e vantaggiosa per tutte le parti in causa.
Dati macro
I dati macro di aprile sottolineano una situazione contrastata e talvolta contradditoria. L’indice Zew, che misura la fiducia sulla crescita economica, crolla: non si vedevano dati peggiori da novembre 2012. Nel dettaglio, l’indice ad aprile è crollato a -8.2 (da +5.1 di marzo). Le ragioni della contrazione delle aspettative si possono ricondurre alla “guerra” commerciale ed anche ai conflitti in Medio Oriente. È però da notare che produzione, esportazioni e vendite al dettaglio in Germania, nel primo trimestre del 2018, hanno subito un sensibile calo, con un ragionevole effetto negativo sullo sviluppo economico futuro. Ciononostante l’indice Pmi manifatturiero della Germania ha evidenziato sì un calo rispetto al mese precedente (58.1 punti rispetto ai 58.2 di marzo), ma percettibilmente inferiore rispetto a quanto paventato dagli analisti (57.5 punti). L’indice Pmi Servizi della Germania è invece in salita ed oltre le attese. Il tasso di disoccupazione tedesco è leggermente diminuito alla fine del primo trimestre.
Oltreoceano i dati macro sono nettamente positivi, soprattutto per quanto riguarda il real estate, settore notoriamente pro-ciclico: il numero di cantieri avviati e di nuovi permessi per costruzioni sono entrambi in crescita ed oltre le aspettative, ed anche i dati di febbraio sono stati rettificati al rialzo. Il dato più influente è però il Pil Usa: l’economia americana è cresciuta nel primo trimestre del 2.3%, battendo le previsioni che stimavano un +2%. Oltre le attese anche la fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan a 98.8 punti. A questi si è sommato l’effetto delle piacevoli trimestrali Usa.
Qualche dato anche per il Giappone. La disoccupazione è rimasta stabile mentre la produzione industriale ha fatto meglio delle aspettative. In rallentamento le vendite al dettaglio, che rimangono però positive da inizio anno. L’inflazione continua a mostrare segni di debolezza, costringendo la Bank of Japan a rivedere al ribasso le previsioni per l’anno in corso e rimangiandosi l’obiettivo del 2% nel 2020.
Mercati azionari
Il tema dei dazi, che vede ancora come protagonista la figura del presidente Usa, non ha compromesso l’andamento dei mercati azionari, che nelle ultime settimane sembrano aver consolidato una complessiva ripresa.
I listini, nella maggior parte dei casi, si muovono in terreno positivo, con la borsa di Atene in prima linea (+9.96% ad aprile) seguita da Oslo e Milano, che con un bel +7% continua a distinguersi tra le piazze europee. In Italia le large e mid cap value registrano un buon vantaggio rispetto alle mid e small, che devono accontentarsi di un +2%.
I listini americani archiviano aprile attorno alla parità o poco più, ma grazie al cambio per un investitore esposto all’euro avanzano di circa il 2-3%. Negli Usa a primeggiare sono invece le mid e small cap growth. Il Nikkei sta vivendo un momento davvero interessante, avendo confermato il rimbalzo di fine marzo e successivamente violato i massimi di periodo, e punta ora ai 23.000 punti. Degno di menzione è anche il successo dell’equity Africa e Medio Oriente, in trend crescente da inizio 2018 e in accelerazione nelle ultime settimane: il quadro potrebbe giustificare una presa di profitto ed una correzione nel breve periodo.
In rosso troviamo Shanghai, Mosca e Istanbul, rispettivamente del 2.50%, 7.50% e 9.20%. Si evidenzia un generale rallentamento delle economie emergenti, pur mantengono una buona impostazione strutturale.
Mercati obbligazionari
La ripresa degli asset azionari trascina con sé anche i convertibili. Bene anche le obbligazioni high yield ed in particolare il corporate Usa. Debole invece il debito collegato all’area euro, specie se con scadenze medio-lunghe. Yen, franco svizzero e America Latina rappresentano ulteriori fattori negativi.
Mercati valutari
I movimenti sui cambi e cross paiono particolarmente correlati a quelli degli altri asset, influenzandosi reciprocamente. I rafforzamento troviamo il dollaro canadese, Usa e di Hong Kong. Grave inabissamento invece per il Rublo, che, affondato dalle sanzioni americane, ha toccato i minimi da oltre due anni.
Commodities
Le tensioni in Medio-Oriente e la contrazione delle scorte Usa spingono il petrolio, che ha sfondato i 75 dollari al barile, il massimo da novembre 2014, per poi correggere nelle ultime sedute di aprile. Il primo significativo supporto è a 71, ma non si esclude una rapida ripresa, anche considerato il generale consensus degli istituzionali in tale direzione.
L’oro invece pare poco tonico e delicatamente adagiato sul pavimento del canale che lo contiene da inizio anno. La tenuta dei 1300 dollari ed il rimbalzo in atto in queste ore è un caso da manuale di analisi tecnica che anticiperebbe un recupero dei 1350 entro l’estate.
Monica Zerbinati