Gli Usa dei dazi e la Gran Bretagna della Brexit stanno bene come non mai
Dazi
Trump prosegue con la politica protezionistica a tutela della produzione domestica. Dopo acciaio ed alluminio l’attenzione della Casa Bianca cade ora sulle auto, in particolare europee, con l’obiettivo di riequilibrare il saldo commerciale negativo del settore dovuto anche all’attuale tassazione, che colpisce per il 2.5% l’import di auto europee mentre l’export è penalizzato dal 10% di prelievo da parte della UE. Paradossalmente la misura potrebbe incentivare i produttori tedeschi, ora attivi negli Usa, a spostare parte della produzione – quella destinata al mercato orientale – in Sudafrica. Si aprono quindi nuove opportunità per il Paese emergente, i cui listini viaggiano in territorio negativo con riferimento all’anno in corso, ma sono forti di un trend strutturale crescente che potrebbe trovare nuovo vigore.
Spread e Bance centrali
Le ultime settimane hanno visto il rendimento dei decennali italiani avvicinarsi e riallontanarsi da quello dei decennali tedeschi più e più volte, determinando un’oscillazione dello spread tra i 200 e i 300 punti base, ma con massimi decrescenti. Ad oggi il rendimento dei Btp oscilla attorno al 2.74%, mentre il bund offre circa lo 0.30%. Da inizio anno complessivamente il rendimento del BTP è cresciuto di 66 punti base, mentre il bund ha ceduto circa 15 bp.
Facendo qualche passo indietro e osservando i dati con un certo distacco la situazione non pare poi così drammatica, né per le finanze pubbliche, né per gli investitori. Nel primo caso, bisogna sottolineare come il Tesoro negli ultimi anni abbia intelligentemente approfittato dei tassi bassi per allungare la scadenza media del debito. È vero che il debito di nuova emissione subirà un costo superiore – l’asta dei Btp decennali di fine giugno si è conclusa al 2.77% – ma pur sempre inferiore a quello dei titoli in scadenza. I tassi azzerati, se non negativi, a cui ci siamo abituati negli ultimi anni, rappresentano una distorsione dei tradizionali equilibri di mercato, una forzatura della teoria finanziaria che dovrebbe normalizzarsi con la fine del quantitative easing prevista per il 31 dicembre. È proprio a questo programma che dobbiamo la costante discesa della spread dal 2011 (che era riesploso nel 2012 nonostante i mesi di austerità e l’europeismo convinto di Monti), e soprattutto al celeberrimo “whatever it takes” di Mario Draghi. Non è difficile crederci: finché la BCE continua a comprare titoli sul mercato secondario non c’è motivo di impanicarsi.
Abbiamo ancora tempo, non da perdere ma da sfruttare efficacemente, per adattare i nostri portafogli alle nuove condizioni di mercato. Gestire attivamente la duration sarà un aspetto fondamentale per cavalcare il ritorno alla normalità, e con normalità intendiamo vedere nuovamente un profilo rischio-rendimento competitivo per i bond, rapporto che negli ultimi anni è stato fortemente sbilanciato verso il rischio.
Come ampiamente previsto la riunione del FOMC del 13 giugno ha fornito alla Federal Reserve l’occasione di attuare il settimo rialzo dei tassi dal dicembre 2015, nell’ambito di un processo di normalizzazione della politica monetaria. La decisione, presa all’unanimità, ha portato la nuova forbice del costo del denaro all’1,75-2%, con un incremento di 25 punti base.
Ad oggi la Federal Reserve ha in agenda sette aumenti complessivi tra il 2018 ed il 2019, uno in più rispetto al programma di sei rialzi diffuso lo scorso marzo. È quindi probabile che quest’anno assisteremo ad altre due operazioni e tre nel 2019. La Fed ha inoltre rivisto al rialzo le stime di crescita del Pil nel 2018, che ora si attestano al 2,8% invece del 2,7%. In aumento anche l’inflazione (al 2,1%, anziché all’1,9%), che però dovrebbe stabilizzarsi fino al 2020. Si prevede inoltre che la disoccupazione, già invidiabilmente bassa, cali ulteriormente, chiudendo l’anno al 3,6% prima di consolidarsi al 3,5% nel prossimo biennio.
Dati macro
I dati macro evidenziano una forte decorrelazione dell’economia reale tra diverse regioni del mondo.
Grande entusiasmo negli Stati Uniti: gli indici sull’attività manifatturiera e non manifatturiera non deludono, bene anche la disoccupazione che registra il nuovo minimo dal 2009. Sembra conclamato il trend decrescente delle scorte di petrolio greggio negli Stati Uniti, mentre corre l’immobiliare trainato dalle vendite di nuove costruzioni, nonostante i tassi sui mutui in rialzo e la scarsità dell’offerta.
Gran Bretagna tonica ed in forma con ottime rilevazioni su manifattura, edilizia, servizi, consumi e occupazione.
Nel Bel Paese i dati macro rivelano una situazione in via di miglioramento: inflazione, serivizi e manifattura regalano qualche gioia.
In controtendenza troviamo la Germania, dove i dati sono deludenti su tutti i fronti: il settore manifatturiero, l’indice Zew e l’indice IFO si rivelano peggiori di quanto atteso. Gli occhi sono ora puntati sulla crisi che sta spaccando il governo, che già poggia su un’alleanza fragile.
Anche la Cina patisce, tradita dagli indici del settore manifatturiero e dalla produzione industriale.
Mercati azionari
Complessivamente giugno non passerà agli annali come un mese di grandi performance. La maggior parte dei listini si muove su terreno negativo, con gravi affondi per lo Shanghai Composite (-9%) e molte altre piazze, perlopiù legate ai Paesi in via di sviluppo. Più contenuti i ritracciamenti delle Borse europee, dove Milano cede poco più dell’1%, Parigi l’1.30%, il Dax il 2% circa.
Ad eccellere troviamo Madrid (+2%), Atene ed Oslo. Il Giappone cresce ordinatamente e senza eccessi, ed i listini Usa non si allontanano dalla parità.
Londra sta comprensibilmente correggendo dalla seconda metà di maggio, dopo aver realizzato un +15% in due mesi che ha portato l’indice a segnare nuovi massimi storici poco sotto le 8000 sterline.
Sul risparmio gestito le migliori performance dal punto di vista di un operatore europeo si realizzano sulle Mid e Small Cap statunitensi ed italiane.
L’analisi settoriale premia il real estate Usa, le biotecnologie ed il farmaceutico-sanitario, mentre le materie prime rallentano pesantemente.
Mercati obbligazionari
Sui mercati obbligazionari si riflettono sostanzialmente le dinamiche già viste: a correre troviamo i bond Usa, e tra questi si distinguono i corporate. L’alto rendimento rappresenta un ulteriore fattore di successo per tutti i mercati sviluppati. Alcuni fattori monetari impattano in misura rilevante sui risultati dei bond, ed in particolare l’apprezzamento della corona norvegese. Il debito degli emergenti indietreggia.
Mercati valutari
Dollaro su livelli chiave: il rafforzamento iniziato a metà aprile, dopo un primo trimestre caratterizzato da una lateralizzazione nel canale 1.22-1.25, è stato più volte frenato dalla supporto a 1.15, livello che il tasso di cambio sta nuovamente testando in queste ore.
Come anticipato, anche la corona norvegese avanza decisa sulla moneta unica, alimentando un trend di durata semestrale.
Commodities
Il petrolio mostra un andamento ordinato dal punto di vista tecnico: l’impostazione di fondo rimane volta all’apprezzamento, ed il ritracciamento che ha coinvolto quasi tutto il mese si è concluso con un puntuale rimbalzo sul supporto dinamico, anche sulla scia della scarsità di scorte. Ora il prezzo target è attorno agli 80 dollari al barile da raggiungere in poche sedute.
L’oro è in crollo verticale con la durevole perdita dei 1290 dollari l’oncia. Si aggira ora attorno ai 1250 dollari, livello di supporto dinamico si lungo termine e per questo discretamente rilevante. Un ulteriore ribasso avrebbe come obiettivo i 1240 e successivamente 1215 dollari.
Il gas naturale pare in una pausa del trend crescente e potrebbe a breve testare i tre dollari per milione di Btu.
L’alluminio, dopo lo choc da dazi di aprile, è tornato nei binari e potrebbe a breve rimbalzare sul supporto strutturale e riprendere un trend positivo ordinato.
Monica Zerbinati
Ufficio Studi