Equity sotto pressione e rendimenti in crescita sui bond
Dazi
Dalla mezzanotte del primo giugno sono scattati i dazi Usa su acciaio ed alluminio anche per i Paesi dell’Unione Europea. Il valore della filiera bresciana dell’acciaio si aggira intorno ai cinque miliardi di euro con la quota export di oltre un quinto. Al momento, i danni per il nostro sistema produttivo sono comunque ancora tutti da valutare, e potrebbero risultare comunque marginali, soprattutto in confronto con quelli a carico della Germania, grande esportatrice negli Usa. Le autorità europee hanno da subito minacciato reazioni, ma Ross ha liquidato come irrilevanti le eventuali ritorsioni europee, che colpirebbero una frazione esigua del Pil Usa. Rimane ancora un altro nodo da sciogliere, quello relativo ad eventuali dazi da applicare sulle automobili importate: anche qui la più colpita risulterebbe la Germania.
Spread
In testa ad ogni prima pagina e sulla bocca di tutti, nelle ultime settimane si fa un gran parlare di spread. Il differenziale di rendimento tra i Btp e i Bund a dieci anni è arrivato a sfiorare i 300 punti martedì 29, con gli interessi che sono saliti dal 2.66% al 3.13%: un panic selling di chiara matrice emotiva che ha colpito i buoni del tesoro nel pieno dell’incertezza per la conclamata crisi istituzionale, condita dalla minaccia di messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica, unita alle perplessità sul nascituro governo Cottarelli e sul possibile ritorno alle urne, il tutto determinando un aumento del rischio Italia. Ora che (parrebbe) abbiamo un governo, la febbre sta scendendo e sembra avviarsi una fase di normalizzazione, che comunque non deve illuderci di rivedere i livelli antecedenti alla crisi del 2008.
È opportuno ricordare che in quegli anni, in cui il differenziale aveva raggiunto al massimo i trenta punti, era in vigore l’Accordo di Basilea del 1988, che non richiedeva alle banche di accantonare riserve per coprire i titoli del debito sovrano di tutti i Paesi Ocse, Turchia compresa. Quello che ne era risultata era un’avventata, ed in parte ingiustificabile, convinzione che i titoli di stato fossero tutti ugualmente sicuri. Con l’introduzione di Basilea 2 e la successiva crisi del debito greco, lo spread italiano (il debito pubblico italiano è il secondo in rapporto al Pil nella UE) ha continuato a salire fino a toccare il massimo assoluto a 574, facendo paventare il rischio di default per il Bel Paese e la Spagna. Nonostante la spending review ed il governo tecnico, lo spread è tornato a lambire i massimi nell’estate del 2012, quando l’Eurogruppo ha approvato lo scudo anti-spread. La misura è risultata efficacie ed ha permesso al differenziale di scendere sotto i 100 punti, per poi risalire per tutto il 2016.
Il trend, tornato negativo nella primavera 2017, ha subito uno scossone impressionante che ora sta tentando di rientrare, ma che incontrerà un primo robusto livello di supporto a 210 punti.
Banche centrali
Con la riunione di inizio maggio la Federal Reserve ha confermato la volontà di alzare i tassi di riferimento il 13 giugno ed ha avvalorato l’ipotesi di far correre temporaneamente l’inflazione oltre il 2% annuo, senza necessariamente attuare un’accelerazione delle strette monetarie. Forse per spirito di emulazione, anche a Bruxelles si inizia a parlare di fine del Quantitative easing e rialzo dei tassi con maggiore insistenza da parte dei falchi tedeschi, con un tempismo che lascia trasparire una certa mancanza di tatto. La fine del programma di acquisti e congiuntamente il mandato di Draghi potrebbero creare non poche difficoltà alle finanze italiane, di portata anche superiore alla complessità della situazione politica.
Dati macro
I dati macro figurano tra i principali protagonisti del mese, anche se la cronaca italiana ne ha sicuramente oscurato la rilevanza sulle evoluzioni dei mercati internazionali.
Ad aver deluso sono stati gli indici PMI, sia del settore manifatturiero che dei servizi, in Europa ed in particolare in Germania. L’indice Zew è stato invece confermato a -8.2 punti, al pari del mese precedente ma sotto le attese degli analisti che si aspettavano un miglioramento a -6 punti. Sempre con riferimento alla Germania, la variazione del Pil nel primo trimestre del 2018 si mostra in calo rispetto all’ultimo del 2017, mentre la disoccupazione migliora. Una nota piacevole arriva dalla Francia grazie all’indice dei prezzi al consumo, ma l’entusiasmo dura poco: anche il Pil francese non è all’altezza delle aspettative.
Limitatamente all’Italia sono stati pubblicati i livelli di occupazione relativi a marzo, che mostrano un quadro in sensibile miglioramento, in particolare per l’occupazione giovanile. Il Pil del primo trimestre si attesta sugli stessi livelli del precedente, nonostante l’Ocse abbia rivisto al ribasso il dato tendenziale.
Segni di rallentamento negli Usa, dove le richieste di sussidi di disoccupazioni aumentano e ben oltre le attese, mentre scendono le vendite delle case. Anche la variazione trimestrale del Pil è in calo, ma si attesta comunque su un più che soddisfacente +2.2%.
Mercati azionari
Coerentemente con l’impostazione dell’anno in corso, la forte volatilità e i repentini cambiamenti di direzione trovano conferma anche nelle ultime settimane.
Le ultime due settimane di lateralizzazione non hanno compromesso l’up trend del Nasdaq 100, che conclude il mese con risultati superiori al 4% (in usd). Decisamente più contenuti gli avanzamenti del S&P 500 e del Dow Jones Industrial, che si muovono comunque in terreno positivo.
Molto meno rosea è invece la situazione europea, dove l’Euro Stoxx 50 cede di oltre il 2.50%. L’Unione Europea risulta tagliata nettamente a metà , con le piazze del nord che avanzano più o meno speditamente e quelle attorno al Mediterraneo che scalpitano.
Aldilà dei dati statici di rendimento mensile, che catturano solo una componente della realtà oggettiva ma incompleta, possiamo individuare una matrice comune su tutti i listini europei, rappresentata dalla prima metà di maggio all’insegna della crescita ed un crollo nella seconda metà, in corrispondenza della quale i rendimenti sui bond hanno segnato un discreto allungo.
Mercati obbligazionari
Grazie ad un mix di diversi fattori, i bond di tutto il mondo stanno vivendo una fase nuova. I rendimenti dei titoli decennali Usa hanno infranto la soglia del 3% per la prima volta dal 2014. Il rendimento dei T-Bond con scadenza a tre mesi hanno superato il dividend yield dell’indice S&P 500 per la prima volta dal febbraio 2008. A questo si è sommato l’apprezzamento del dollaro, che ha determinato risultati ancora superiori per gli investitori europei, che se di per sé non sarebbe una cattiva notizia, inevitabilmente destabilizza gli operatori che sono ormai fortemente settati su rendimenti obbligazionari prossimi allo zero, se non negativi.
In Europa la situazione è piuttosto eterogenea, ma in buona parte dei Paesi mediterranei si è registrato un considerevole aumento dei rendimenti, anche se in buona parte rientrato. Il Btp italiano ha subito un crollo verticale dai primi di maggio, arrivando a toccare i prezzi del 2014, con il future sorretto solo dal supporto a 120 euro. Specularmente il Bund, in trend lievemente negativo nel medio periodo, è stato preso d’assalto, ma anche qui pare delinearsi un rientro alla normalità.
I tassi più elevati possono significare maggiori livelli di rischio, soprattutto sulle posizioni obbligazionarie in essere, ma sono pur sempre una condizione necessaria per normalizzare i rendimenti inesistenti a fronte di rischio che non può mai essere annullato. È poi opportuno considerare che, in una logica di lungo periodo che è propria degli investitori e non degli speculatori, quando i tassi sono in aumento il denaro ricevuto da ogni obbligazione in scadenza può essere reinvestito in nuovi titoli con rendimenti superiori: nel corso del tempo anche gli asset obbligazionari possono così contribuire alla generazione di ritorni nei portafogli diversificati.
Mercati valutari
Prosegue il rafforzamento del dollaro, iniziato a metà aprile, dopo un primo trimestre caratterizzato da una lateralizzazione nel canale 1.22-1.25. Il biglietto verde avanza sulla moneta unica di oltre il 3.60% a maggio, per poi concludere il mese con un rimbalzo sul supporto chiave a 1.15. L’evoluzione appare come il frutto di due fattori: da un lato l’apprezzamento di una valuta oggetto dell’aumento dei tassi di interesse, di cui il prossimo già scontato, e l’indebolimento di un’altra, minata da dati macro meno brillanti del previsto e dall’emotività sull’acclamato rischio Italexit.
Rapido avanzamento anche dello Yen, attorno al 4%, peraltro intuibile vista la natura di bene rifugio della valuta nipponica. Anche Rublo russo e Franco svizzero corrono, mentre in forte deprezzamento troviamo il Peso argentino, la Lira turca ed il Real brasiliano.
In linea generale, si evidenzia una cedimento dell’euro contro tutte le valute.
Commodities
Tra gli importanti elementi passati in sordina a causa del trambusto nella cronaca italiana, il petrolio figura tra i più rilevanti. Procede infatti spedito nel suo up trend di medio periodo, che ha permesso di segnare nuovi massimi relativi a 80 dollari al barile. Le cause sono molteplici, e comprendono le tensioni in Medio-Oriente, il calo delle scorte Usa, la sempre minore redditività dell’estrazione, via via più costosa, ed anche la volontà dei produttori Opec. In pieno trend positivo anche il gas naturale.
L’oro sorprende poiché, contrariamente ad ogni previsione, nonostante le criticità delle ultime settimane è crollato sotto i 1300 dollari l’oncia. La scelta degli investitori è evidentemente caduta su Yen e soprattutto decennali Usa, che al contrario dell’oro staccano cedole interessanti. L’argento sta vivendo una lunga fase di crescente stabilità, con volatilità e oscillazioni sempre più ridotte e contenute nell’area 16.2-16.7 dollari l’oncia. Tecnicamente parlando è possibile che a breve abbia inizio una nuova fase direzionale alla perforazione del supporto o della resistenza.
Monica Zerbinati